Per tre giorni, il 7, 8 e 9 Novembre, la Reggia di Colorno sarà teatro del “ColornoPhotoLife”, importante rassegna di fotografia giunta quest’anno alla quinta edizione. Per un mese intero i magnifici spazi della Reggia ospiteranno le mostre di sette grandi protagonisti della fotografia italiana, con un occhio di riguardo per i talenti “nostrani”: quattro autori su sette sono infatti nati e cresciuti in Emilia Romagna.
Il 7 novembre alle ore 18 saranno presentate le mostre (che rimarranno visitabili fino al 7 dicembre), ma è nei due giorni successivi che verrà creato il “contesto” necessario per la fruizione delle esposizioni: i volontari del Circolo fotografico ColorsLight, ideatori e promotori dell’evento, hanno pensato di avvalersi della collaborazione di FIAF e CSAC per “riempire” letteralmente di eventi collaterali il weekend di apertura.
Conferenze, workshops, proiezioni audiovisive, letture portfolio, concorsi, tavoli di lettura e conversazione, stand di librerie specializzate… Tutto questo e altro ancora sarà “spalmato” nell’arco delle tre giornate d’apertura della rassegna, in cui vi saranno anche numerosi momenti di incontro con gli autori che esporranno, per condividerle, le loro riflessioni ed esperienze.
Qui potete leggere il programma completo.
Prima di parlare dei protagonisti (e del particolare concept attorno al quale si svolgerà il Festival) però, vorremmo percorrere con voi un breve itinerario fotografico degli spazi che ospiteranno l’evento.
Lo Spazio
La maggior parte delle mostre fotografiche si terrà nel Piano Nobile, composto da 22 sale tra cui spicca la Gran Sala, realizzata dal celebre architetto francese Ennemond Alexandre Petitot nel 1753. Qui si terranno anche i tavoli di lettura con alcuni studiosi e storici della fotografia.
L’aranciaia della Reggia è stata riservata alla mostra “La mia Africa” di Giuseppe Morandi. L’orangerie è una specie di “serra”, voluta dal duca Francesco Farnese nel 1710 come ricovero invernale degli alberi di aranci e limoni che durante l’estate ornavano lo splendido giardino della Reggia.
Le mostre dei collettivi saranno ospitate dall’Appartamento del Principe: in queste sei grandi sale Ferdinando di Borbone, uomo estremamente pio, si trasferì nel 1789 per essere più vicino alla Chiesa di San Liborio dove era solito ritirarsi in preghiera.
Le conferenze invece si terranno nella magnifica Sala del Trono
Ricordiamo inoltre ai visitatori della Reggia di non trascurare il magnifico Giardino Ducale: allestito per la prima volta alla fine del XVI secolo come giardino all’italiana, ha poi subito diverse trasformazioni nel corso dei secoli, fino a diventare quell’inedito connubio tra giardino alla francese e parco romantico all’inglese che oggi conosciamo. E’ stato recentemente inserito tra i “Luoghi del Cuore”, il censimento del FAI (Fondo Ambiente Italiano) atto a preservare le bellezze architettoniche e naturali del nostro Paese.
Il Festival
Durante il festival saranno messi a confronto il passato e il futuro della fotografia, tra le “radici” e le “nuove frontiere” che fanno da sfondo al concept di quest’anno, il particolare “filo rosso” che percorre la rassegna tenendo unite fra loro tutte le esposizioni e gli incontri. Per identificarlo, risulta utile riportare il “payoff” del Festival:
E’ nello spazio che l’uomo scopre e costruisce il mondo.
Lo spazio immenso e quello insufficiente.
“Le cose della natura dimensionano lo spazio. Non esiste paesaggio senza sguardo, senza
coscienza del paesaggio” (Marc Augé – Rovine e macerie, 2004)
Il tema portante della rassegna è dunque lo spazio, inteso come dimensione fondamentale del XXI secolo, in quanto variabile da dominare per lo sviluppo umano: “se il tempo è stato dominato dalla rapidità per fare, lo spazio viene dominato dalla raggiungibilità materiale e intellettuale di ciò che era remoto e oggi non lo è più” (fonte).
La domanda da farsi prima di approcciarsi al Festival è dunque la seguente: come viene interpretata la variabile spaziale dai diversi protagonisti? Fotografi con età e background culturali molto differenti, che si ritrovano a confrontarsi su un tema così ampio e, oltre a ciò, con la responsabilità di dare delle risposte comprensibili, di generare senso attraverso la forza delle immagini.
I protagonisti
Lo stesso concetto di spazio assume, nelle interpretazioni dei diversi artisti, innumerevoli significati:
In “Vaghi Paesaggi”di Gianni Canova lo spazio rappresenta paesaggi e luoghi quotidiani, in cui l’autore rende con esattezza il senso dell’esperienza concreta, magari di frequentazione abituale ma sempre stupìta, del nostro ambiente.
Nel lavoro di Antonella Monzoni (“Bellezza silenziosa”), che ha preso forma lentamente tra Lalibela nel 2003 e l’Iran nel 2012, lo spazio diviene il territorio identitario in cui è possibile rilevare la presenza di un’entità, la donna, la cui bellezza trasforma silenziosamente il mondo.
“Temporary Home” di Enrico Genovesi, indagando storie di persone che si trovano in temporanea ospitalità presso centri accoglienza per l’emergenza abitativa, diviene metafora di uno spazio accogliente ma insufficiente e precario.
“Break into break” di Alex Liverani è un’indagine visiva su frammenti quotidiani (le pause di lavoro, il cosiddetto break) che cadono a ripetizione in un contesto urbano come la City, ma che si fermano nell’obiettivo solo quando diventano la misura e il metro di uno spazio urbano quasi surreale.
Lo spazio indagato da Giuseppe Morandi è quello umano del suo paese d’origine, Piadena, che Morandi chiama “La mia Africa”: un “continente nero” dal sapore padano, dove nuovi volti dai tratti extraeuropei, dalla pelle di colore scuro, popolano le piazze, le vie, le fabbriche, le cascine. E Piadena diviene cittadina di frontiera, crocevia di culture e di lingue diverse. In questo lavoro, costruito sulle persone piuttosto che sui luoghi, emerge un processo d’integrazione vittorioso, causato dalle similitudini tra due tribù: quella dei “paisàn”, gli abitanti di Piadena, con gli scooter, taglio di capelli particolare e “divisa”, e quella dei “nuovi paisàn”, una tribù nella tribù; riconoscibili perché diversi, accettati perché eguali.
Al centro di “Pornostations” di Pietro Millenotti vi sono le figure femminili sui distributori di materiale pornografico, simbolo di sessismo, “pornificazione” della società moderna e consumismo. Ciò che ne deriva è la percezione di trasformazione di spazi del quotidiano in non-luoghi, quali stazioni di servizio, autolavaggi e bar, oltre a una sensazione di solitudine dell’uomo amplificata dalla presenza dell’oscurità.